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Prokof'ev e uno sberleffo impunito a Stalin

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A ogni personaggio della favola il compositore associa uno strumento: a Pierino gli archi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi) all'uccellino il flauto...


Prokof'ev e uno sberleffo impunito a Stalin
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La cultura è lo strumento più efficace per indirizzare e migliorare la società.
La cultura sa costruire un’identità di popolo, far nascere una nazione, come spernacchiare uno dei più feroci dittatori del secolo scorso.
All’inizio del 1800, alcuni intellettuali individuarono nell’opera lirica, lo spettacolo più seguito a quel tempo, quale mezzo per veicolare l’idea di unità e libertà dal giogo straniero. Un giovane compositore, Giuseppe Verdi, divenne il loro cantore e opere come Nabucco e I Vespri Siciliani infiammarono il popolo. “Viva Verdi!”, era scritto sui muri; Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia, il suo occulto significato. E così la musica accompagnò e sostenne le battaglie dai Moti Rivoluzionari del 1848 alla Prima Guerra d’Indipendenza dell’anno successivo, fino ad arrivare all’unità, a cancellare quell’appellativo dell’Italia quale espressione geografica e nulla più.

Quindi, lo dobbiamo alla cultura se oggi siamo nazione, abbiamo un debito con romanzi quali “Ettore Fieramosca” di Massimo D’Azeglio o a cori come “Va pensiero sull’ali dorate” di Giuseppe Verdi.

Vi dicevo, al principio, che l’arte sa anche irridere il potere; è questo il caso di Sergej Prokof’ev e del suo “Pierino e il lupo”.
Sergej Prokof’ev è da sempre oggetto di una disputa che può essere sintetizzata in una sola domanda: fu un opportunista o l’anima critica della rivoluzione? Iniziamo la ricerca di una risposta al quesito, conoscendo il compositore in modo meno accademico, ma ugualmente efficace per intuirne la personalità.
Il musicologo americano Harold Schonberg così lo descrive: “Prima della Grande Guerra, quando Rachmaninov e Scriabin erano sulla cresta dell’onda in Russia, c’era uno studente del Conservatorio di San Pietroburgo che si chiamava Sergej Prokof’ev. Era un giovanotto testardo, di pessimo carattere, sgarbato, ma di talento innegabile.

Alcuni lo dicevano addirittura genio. Era nato a Sonkovka in Ucraina, il 23 aprile del 1891. A sei anni era un disinvolto pianista e a nove tentò di comporre un’opera. Entrato in Conservatorio a tredici anni, non passò inosservato anche per l’aspetto. Aveva una testa tonda piantata su un collo esile, una pelle rosea che diventava facilmente rossa quando s’arrabbiava (e gli capitava spesso), occhi azzurri molto penetranti, labbra grosse e sporgenti. Portava con sé quattro opere, una sinfonia, due sonate e altre composizioni per piano”.

Geniale e scontroso, quindi, al limite della maleducata arroganza. Tipica fu la risposta data a un ammiratore, che lo inondò di elogi e gli strinse la mano dicendo: “Che infinito piacere conoscervi!”. Prokof’ev gli voltò le spalle brontolando: “Io, invece, non ho provato alcun piacere a conoscere voi!” Le sue composizioni di anti romanticismo, in un Conservatorio fedele alla tradizione romantica, misero in allarme l’intero istituto e fu denunciato per il suo interesse politico quale “estremista di sinistra”. Eppure, quando si realizzò la Rivoluzione con le sue violenze ed eccidi, Prokof’ev abbandonò la Russia per raggiungere gli Stati Uniti via Giappone. Non voleva assoggettarsi ad una ideologia quale sistema culturale.
Il primo contatto con il mondo occidentale è fondamentale per il consolidamento delle sue idee musicali. I viaggi a Londra, l’incontro con Ravel e Strauss, la collaborazione con il coreografo Diaghilev, il forte impatto con le idee di Marinetti e del movimento futurista, in Italia. Tutto ciò contribuì a stimolare la componente avanguardista di Prokof’ev, che con la Suite Scita – 1916, ricavata dalle musiche per un balletto commissionato da Diaghilev, che poi rifiutò di metterlo in scena – si abbandona agli ideali del primitivismo, che avevano ne “Le Sacre Du Printemps” di Stravinskij, il loro manifesto: la ricostruzione di un passato ancestrale attraverso la riscoperta di musiche pre-tonali, soggetti fantastici e riferimenti magici.

Prokof’ev non si avvicinò mai, neanche per curiosità, ai linguaggi radicali, preferendo a Schoenberg e Berg il più anziano Richard Strauss. Non è un caso che, ancora nel 1917, nel suo periodo più avanguardista, Prokof’ev decida di scrivere una sinfonia nello stile di Haydn, chiamandola “Classica”. È un “rivoluzionario ma non troppo” e questo sarà anche il suo atteggiamento politico.
Infatti, pur avendo appoggiato con entusiasmo il passaggio nel Febbraio del 1917 dalla autocrazia zarista al governo liberale di Kerenski, non si dimostrò altrettanto disponibile nei riguardi delle rivolte bolsceviche di Ottobre, che determinarono la nascita del potere sovietico. La sua idea era menscevica e cioè che la nuova Russia dovesse realizzare le riforme politiche e sociali utilizzando le elezioni politiche e attraverso un processo culturale e democratico.

Nel 1918, nel bel mezzo della guerra civile e avendo certezza su quale sarebbe stato il futuro politico della Russia, Prokof’ev fugge, recandosi negli Stati Uniti. Protetto dalla bandiera a stelle e strisce riuscirà a raggiungere il successo mondiale, sia come compositore che come esecutore. Ma alla fine degli Anni Venti, anche l’Europa e l’America divennero un territorio pericoloso e disagiato: il nazismo in Germania, il Fascismo in Italia e con gli Stati Uniti a raccogliere i cocci della Grande Depressione del ’29. Forse la Russia di Stalin, e soprattutto l’ideologia comunista che appoggiava fortemente le arti, poteva avere bisogno di un celebrato cantore, di un geniale figliuol prodigo.
Tornato in patria nel 1927 per una serie di concerti, decise di ristabilirsi definitivamente all’ombra del Cremlino, anche se l’Urss di Stalin non era certo un’isola di libertà. Prokof’ev era un “rivoluzionario ma non troppo” e infatti, nel rapporto con il regime, si manifestano tutte le contraddizioni della personalità del compositore ucraino, divisa tra censura e celebrazione del potere, tra riconoscimenti ufficiali e umilianti stroncature. Ma in quel tempo stava proponendosi con forza la Settima Arte, il cinema e Stalin, come Mussolini, ne aveva colto immediatamente la capacità persuasiva. Il cinema era il mezzo più efficace del nuovo secolo per la propaganda politica! Il ritorno di Prokof’ev in Patria è segnato dall’incontro con Sergej Ejzenstein e con il cinema che con le musiche del Nostro ricevette un impulso qualitativo eccezionale, considerato che la colonna sonora era valutata alla stregua di un semplice intrattenimento sonoro alle immagini mute.
I pareri alterni a cui fu soggetto in patria, riguardano l’adesione mai convinta di Prokof’ev ai dettami del “realismo socialista”, ossia all’espressione artistica del regime staliniano: una sorta di verismo ottimista, un iperrealismo al quale proprio non riuscì ad abbandonarsi. Nonostante i tentativi patriottici d’esaltazione della Rivoluzione, le sue opere migliori rimangono quelle che sfuggono all’argomento sociale, per tuffarsi nel fantastico e nel fiabesco. Ne è un esempio l’opera “L’amore delle tre melarance” e la splendida favola “Pierino e il lupo” della quale alcuni musicologi danno una interpretazione meno innocente.

Parliamo della favola in musica “Pierino e il lupo” di Sergej Prokof’ev. A ogni personaggio della favola, il compositore associa uno strumento: a Pierino gli archi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi), all’uccellino il flauto, al gatto il clarinetto, all’anatra l’oboe, al nonno il fagotto, ai cacciatori le percussioni. Al lupo i tre corni.

Ecco la storia: Petja disobbedisce al nonno e va nella foresta; arriva il lupo che mangia l’anatra. Pierino allora prende una fune, sale su un albero, fa un nodo scorsoio e dice all’uccellino: vola davanti alla bocca del lupo, mentre io cerco di infilare la fune nella sua coda. L’uccellino vola, il lupo non riesce ad acchiapparlo, Pierino invece sì: il lupo è prigioniero. E se fosse questo il primo indizio lasciatoci da Prokof’ev per una lettura più politica della favola? Chi è quell’uccellino che – una, due, tre volte, mentre il flauto svetta felice e sbarazzino – arriva a un centimetro dalla bocca del lupo senza farsi sbranare? Chi se non l’artista che riesce a sopravvivere, a irridere il potere, a far impazzire di rabbia tutti i lupi del mondo?
Secondo indizio: catturare un lupo, non ucciderlo ma portarlo allo zoo nel 1936? Prokof’ev primo degli animalisti, oppure scelta affinché tutti potessero vedere il lupo in gabbia e non averne più paura?
Per trovare il terzo, e a mio avviso decisivo indizio, bisogna guardare un cartone animato girato negli Stati Uniti dalla Walt Disney. Prokof’ev e Disney si erano conosciuti, e piaciuti, nel 1938 a Hollywood, durante l’ultimo viaggio del compositore all’estero. Nel cartoon della Disney l’uccellino si chiama Sasha; l’anatra Sonya; il gatto Ivan. Solo il lupo non ha nome. Ognuno potrà chiamarlo come gli pare. Per voracità, il lupo ha inghiottito l’anatra tutta intera e l’anitra si chiama Sonya, variante russa di Sophia: nome greco che significa sapienza-saggezza. La dittatura inghiotte sempre la conoscenza non omologata. La dittatura zittisce gli artisti che non la servano.
Se il lupo è il tiranno che inghiotte l’anatra, la cultura, e l’uccellino Sasha è l’artista, forse lo stesso Prokof’ev, a chi corrisponde Ivan? Cosa rappresenta la corda?
Rileggiamo la favola secondo questo schema: Petja (Pierino) – l’anelito alla libertà L’uccellino Sasha – l’artista L’anatra Sonya – la cultura Ivan – il popolo La corda – la giustizia

Ora sarà: il tiranno divora la cultura. Ma l’anelito alla libertà sconfiggerà la tirannia e farà giustizia. Sarà l’arte a infiammare il popolo, a tenere vivo il desiderio di libertà, a dimostrare che il potere non è invincibile ma può essere irriso. Il tiranno tenterà di zittire l’arte ma non vi riuscirà; sarà invece l’anelito alla libertà a sconfiggerlo.

Non sappiamo se Stalin decifrò gli indizi. Però, da lì a poco cominciò a vendicarsi. Prima da vivo, limitando la libertà del compositore e facendo arrestare la prima moglie Lina Ivanovna, infine proibendo l’esecuzione delle sue opere. Poi, si vendicò morendo lo stesso giorno, il 5 marzo 1953, in cui spirò il compositore. «Tutto il paese piangeva Stalin e nessuno sapeva che era morto Prokof’ev, che viveva a quattro isolati di distanza dalla sala dove era esposto il corpo del dittatore. A causa della folla, per alcuni giorni non fu possibile far uscire il corpo di Prokof’ev da casa. Al suo funerale non vi era neppure un fiore fresco: tutti i fiori di Mosca erano stati portati a Stalin», racconterà Mstislav Rostropovic. Ma “Pierino e il lupo” continua ad essere tra le favole musicali più eseguite e l’uccellino non ha mai smesso di sbeffeggiare il lupo… E continua a farlo.

Massimo Carpegna

Massimo Carpegna
Massimo Carpegna

Visiting Professor London Performing Academy of Music di Londra. Docente di Formazione Corale e del master in Musica e Cinema presso Istituto Superiore di Studi Musicali Vecchi Tonelli..   Continua >>



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