Apprendo degli organi di stampa che i pubblici ministeri riminesi hanno richiesto l’archiviazione del procedimento penale a carico di L.M., il comandante della stazione carabinieri di Villa Verucchio che la notte di Capodanno si è visto costretto ad impugnare la propria arma di servizio contro M.S., uccidendolo.
La notizia, per quanto drammatico possa essere stato l’epilogo della vicenda – la morte di una giovane vita rappresenta sempre un dramma a prescindere –, è lieta, nella misura in cui rasserena apprendere che, nel servire e proteggere, anche in questo caso, un operatore di polizia abbia scrupolosamente rispettato regole e protocolli.
Da cittadino, devo confessare che, di primo acchito, ciò che più mi colpì favorevolmente nell’apprendere la notizia fu che, fortunatamente, nonostante l’aggressione subita, l’operatore di polizia non avesse riportato conseguenze a livello fisico.
Perché, se certamente importante, a valle, è stato apprendere che, anche in questo caso, regole e protocolli sono stati
Dico questo perché, a ben guardare, questo specifico aspetto, pur fondamentale, a livello di dibattito pubblico è pressoché sempre obliterato: raramente, infatti, nel commentare i fatti di cronaca, ci si preoccupa di salutare con favore il fatto che, per aver servito e protetto, un operatore di polizia non abbia riportato conseguenze a livello fisico.
Quando, invece, volendo correttamente impostare la questione, ciò dovrebbe sempre rappresentare la prima, doverosa, preoccupazione dell’opinione pubblica.
Ciò chiarito, il punto è: fa piacere toccare con mano il fatto che, nonostante le note inefficienze della giustizia italiana – non famosa, a livello mondiale, quanto a celerità delle procedure penali nostrane –, i pubblici ministeri riminesi abbiano aperto e chiuso il cerchio degli (anche complessi) accertamenti (anche tecnici) posti a base dell’anzidetta richiesta di archiviazione in tempi (così) celeri.
Non solo perché ciò dimostra che, anche per quanto riguarda l’italica giustizia, “volere è potere” – quando gli operatori della giustizia decidono di essere efficienti, efficiente, guarda caso, diventa anche la giustizia –; ma anche perché credo che,
Chiarisco il pensiero: la legge, come noto, non deve fare differenze che non siano imposte dal rigoroso rispetto, in positivo ovvero negativo, del principio di uguaglianza.
Sotto questo profilo, se nessuno dubita del fatto che la celerità dell’accertamento giudiziale dovrebbe sempre rappresentare primaria qualità di una giustizia efficiente, parimenti nessuno dubita nemmeno del fatto che, da questo punto di vista, nessuna differenza dovrebbe sussistere tra la posizione dell’operatore di polizia e quella del semplice cittadino che si trovi a sua volta ad essere protagonista passivo di un procedimento penale: in entrambi i casi, infatti, se richiesta di archiviazione deve essere, essa deve essere celere, pena l’ipotecare vite vere di persone vere in favore di una giustizia incapace di amministrare efficientemente se stessa.
È, però, vero – e va detto – che, a differenza di un qualunque cittadino, l’operatore di polizia svolge quotidianamente una professione che gli impone ex lege una particolare esposizione a pericolo, con conseguente rischio, invero non latente, di incappare in procedimenti penali doverosamente volti a verificare se sono effettivamente state rispettate le regole del gioco – è stato il caso di L.M.; ma è stato anche il caso degli operatori di polizia recentemente indagati in conseguenza di quanto tragicamente accaduto a Francavilla Fontana –.
Perché che, in questi casi, qualcuno – p.m.
Ma a parte il fatto che, in questi casi, a mio parere, civiltà di comportamento vorrebbe che, a livello di opinione pubblica, si presumesse sempre, fino a prova contraria, la correttezza di chi – l’operatore di polizia – è quotidianamente in strada (appunto) per proteggere e servire la collettività, il punto è che, nel rispetto della singola persona dell’operatore di polizia e, soprattutto della sua funzione (anche) istituzionale, l’accertamento giudiziale dovrebbe sempre essere celere.
Né lo stesso dovrebbe incidere in termini negativi – come, invece, troppo spesso ingiustamente accade – su eventuali avanzamenti di carriera.
Senza considerare, in proposito, che, in caso di proscioglimento, le spese – anche quelle legali – dovrebbero giustamente essere affare dello Stato e non del singolo operatore di polizia.
In difetto, davvero lo Stato corre il rischio di mancare ingiustificatamente di rispetto a chi, quotidianamente, servendo (quel)lo (stesso) Stato, mette a rischio la propria vita per aiutare le persone e per garantire la loro incolumità da tutti i punti di vista.
E questo, francamente, (soprattutto) da parte dello Stato, è inaccettabile.
Guido Sola