Quando la ghiaia si estraeva dai letti dei fiumi: i danni di allora
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Quando la ghiaia si estraeva dai letti dei fiumi: i danni di allora

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Fino al 1975 la quasi totalità dell'approvvigionamento di ghiaia avveniva dai corsi d'acqua. Essa cessò nel 1981. Danni immensi: le promesse non mantenute


Quando la ghiaia si estraeva dai letti dei fiumi: i danni di allora
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Dopo un quadro complessivo sulle estrazioni di ghiaia nella nostra provincia, può essere utile fare un passo indietro e fotografare la pianificazione antecedente il 2008.

Fino al 1975 la quasi totalità dell’approvvigionamento di ghiaia avveniva dai corsi d’acqua. Essa cessò totalmente nel 1981. Il controllo era affidato al Genio civile, in quanto i corsi d’acqua erano di competenza statale anche nel tratto montano. Nel Panaro, si scavò ghiaia praticamente dalla confluenza Leo – Scoltenna fino al Ponte di Sant'Ambrogio. Nel Secchia, si scavò ghiaia praticamente dalla zona di Poiano sino a valle di Rubiera.

I volumi estratti “ufficialmente” potevano corrispondere ad uno spessore medio di 2-3 metri per ciascun corso d’acqua, moltiplicata la superficie dell’alveo: peccato però che gli abbassamenti misurati non siano mai stati inferiori ai 5 metri raggiungendo talora anche i 14 metri.

In quegli anni si avviarono “onerosi” studi sulla quantificazione  del ripascimento degli alvei.

Dal 1975 al 1981 l’escavazione dai fiumi, nonostante i danni arrecati (cambiamento dei deflussi, crollo di infrastrutture, erosione delle spiagge romagnole…) continuò per “necessità di pulizia idraulica”.



Nel 1981, fu giurato che mai più si sarebbe scavato dagli alvei: infatti il materiale ghiaioso era totalmente esaurito. La promessa si poté dunque mantenere.

In quello stesso periodo iniziano gli anni dell’ecologismo fatto bandiera dalle nostre amministrazioni pubbliche. Il Comune di Modena aveva istituito un “comitato tecnico-scientifico per l’ambiente” costituito da propri tecnici e da ricercatori universitari che agiva anche in nome e per conto di tutta l’area dell’allora comprensorio. Si determinarono sperimentalmente le fasce di rispetto dei campi acquedottistici, si costruirono carte della vulnerabilità degli acquiferi.

 I Piani Regolatori tennero conto dei fattori ambientali. I Piano Estrattivi, all’epoca formulati a livello comunale, e successivamente comprensoriale, non sfuggirono a queste logiche ambientali. Numerose furono le pubblicazioni e le ricerche nell’ambiente, talora in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Naturalmente tutte queste attività ebbero dei costi non indifferenti, ma certamente giustificati dalle buone intenzioni.

Le buone intezioni

Prendiamo un esempio di ciò che si scriveva negli anni '80.

“Nell'ambito dei servizi l'impatto si concentra sulle Infrastrutture viarie, a causa del trasporto dei materiali litoidi ai frantoi o ai cantieri; generalmente la viabilità pubblica di accesso alle cave è inadeguata a sopportare il traffico indotto, che costituisce pertanto rischio e disagio per gli utenti abituali.”

“Le problematiche del paesaggio comportano impatti di carattere temporaneo (scopertura, coltivazione, riassetto), e impatti permanenti, in relazione all'aspetto del sito al termine del ripristino, con l'effetto di distorsione sul paesaggio del sito di cava e del suo intorno visuale”

“Si può considerare che le aree interessate dall'attività estrattiva sono configurabili ai fini produttivi agricoli come aree marginali: in realtà l'attività agricola deve essere considerata parte del più complesso ecosistema agricolo, che nelle sue componenti naturali è invece pesantemente condizionato dalla vicinanza di attività estrattive. Vanno pertanto interessati da cave i terreni meno idonei all'attività agricola, e salvaguardate le coltivazioni specializzate, oltre a cercare di evitare il frazionamento di poderi o di parte di essi con le cave; occorre infine porre particolare attenzione alla conservazione in buono stato del sistema irriguo e viario.

“La quasi totalità die frantoi è collocata in prossimità degli alvei di Secchia e Panaro, a ridosso dei confini demaniali, con fenomeni di degrado causati direttamente ed indirettamente al territorio circostante.

I principali fattori di impatto che l'attività di cava esercita sull'ambiente si ritiene siano i seguenti: infrastrutture, rumore, qualità dell'aria, qualità dell'acqua, impatti sul paesaggio a carattere temporaneo, impatti sul paesaggio a carattere permanente, geomorfologia, idrologia superficiale, idrogeologia profonda.

I Piani delle Attività Estrattive formulati tra il 1980 ed il 2000, avevano le seguenti linee guida:

  • le attività estrattive dovevano essere concentrate e limitate esclusivamente ai lati dei corsi d’acqua principali, in quanto si erano constatati effetti disastrosi sulla qualità delle acque sotterranee nella zona di Piumazzo e Castelfranco Emilia;
  • Non si dovevano assolutamente aprire nuove cave nelle aree centrali delle due conoidi, ovvero nella zona di Magreta e Marzaglia nel Secchia, nella zona di Savignano, Piumazzo e castelfranco, nel Panaro
  • Per mitigare ciò che era successo negli alvei fluviali, i piani di recupero prevedevano l’aggregazione delle nuove cave agli alvei fluviali, impartendo un profilo trasversale “a corda molle”, in modo che le aree di cava servissero anche come alveo di piena, con diverse finalità, quali laminazione delle piene e aumento dell’infiltrazione nel sottosuolo.
  • Gli impianti di trasformazione dovevano rimanere in aree perifluviali allo scopo di salvaguardare i centri abitati.

Sappiamo come andò col piano del 2009. Possibile che tutti si siano dimenticati di ciò che dissero e scrissero? Nel 2008 il Comune di Modena festeggiò con grande risalto mediatico i 30 anni dell’istituzione dell’Assessorato all’ambiente. Invitato speciale il “viaggiatore per caso” Patrizio Roversi. Ci si dimentica di evidenziare però che il nuovo “ecologismo” ha stravolto tutti i principi enunciati nei decenni precedenti.

Da una analisi del professor Maurizio Pellegrini dalla Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

 


Redazione Pressa
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