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Fabio Mora: cantante, autore, persona: intervista alla voce dei Rio

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I modelli: Jeff Buckley. Jethro Tull, Black Sabbath, Anthrax.. ne ho visti tanti, ma con Jeff Buckley mi son detto 'cazzo, questo qui cambia qualcosa!' aveva una voce...un suono che mi ha sconvolto


Fabio Mora: cantante, autore, persona: intervista alla voce dei Rio
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La Pressa, grazie a Matteo Marrone, intervista Fabio Mora, cantante dei Rio. Una intervista che è un dialogo trascritto, alla pari.

M- Ciao Fabio, raccontami il tuo percorso.

F- Mah, ci sono state parecchie fasi.. il primo ricordo che ho è quello di quando ero in casa con mio fratello e stavamo guardando un programma in tv dove c’erano dei neri che “facevano qualcosa”. Creavano dei suoni con degli attrezzi mai visti, che non conoscevo… che non comprendevo. So solo che quello che avevo visto, o meglio, avevo sentito, mi fece venire la pelle d’oca. E credo che questa esperienza sia stata poi la scintilla che mi ha fatto capire che “quella cosa” doveva far parte della mia vita.

M- Quando hai capito che quella era la strada da seguire?

F- Ho cominciato da subito a cantare e a fare suoni.

Picchiavo su ogni cosa, qualsiasi cosa che facesse rumore. Può sembrare banale ma qualsiasi suono che sentivo, per esempio in mezzo alla natura o, viceversa, per strada, per me era stimolante. Erano tutti suoni che mi entravano sotto la pelle. Di conseguenza li registravo con un registratore e con un altro registravo voci. Ovunque mi trovassi, registravo. Poi sovrapponevo le varie tracce per vedere quello che ne veniva fuori. Non sapevo bene cosa facessi.. in pratica erano le mie prime sperimentazioni sonore.

M- Primo album che hai acquistato con i tuoi risparmi?

F- Eh, primo album, o meglio, prima musicassetta che comprai fu la colonna sonora di Flash Gordon, e da quel momento ebbi la coscienza di cosa fosse Musica. In casa comunque avevo fratelli più grandi che ascoltavano un po’ di tutto; attraverso questo vecchio stereo da macchina collegato a un paio di casse passava da Bob Marley a Santana, dagli Zeppelin ai Clash.

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  Crescendo, cominciai a comprarmi quello che mi pareva e, dalla mia cameretta, la musica mi permetteva di viaggiare. E così ho fatto per parecchi anni…e continuo a farlo!

M- .. e invece, l’ultimo disco che hai comprato?

F- L’ultimo è stato Bonobo, che esce un po’ dai canoni della canzonetta...ho voglia di sentire qualcosa di nuovo, quel “qualcosa” che si fatica a trovare nella musica di adesso.

M- Parentesi RIO. Ogni album è diverso dall’altro. E’ una necessità vostra personale o è un modo per coinvolgere un maggior numero di fan?

F- Io penso che sia più un’ onestà personale e professionale. Rispetto e ammiro tutti i gruppi che riescono a rimanere chiusi nel loro stile. Il nostro (stile) è abbracciare la musica a 360 gradi. Io e Bronski siamo musicalmente aperti a tutto, di conseguenza abbiamo ascoltato e ascoltiamo veramente di tutto e difficilmente riusciamo a soffermarci su un genere che racchiude il nostro modo di fare musica.

Venendo da una cultura musicale tradizionale, chitarra-basso-batteria, quando abbiamo fatto OPS! È stato il momento più difficile. Non ero “preparato” a una sonorità di questo genere; avrei continuato più su uno stile dub. Siamo in un momento di ritorno agli anni ’80, tastieroni, sintetizzato...abbiamo cercato di starci dentro anche noi, ma sempre con la testa e con il cuore dei RIO.

M- All’ultima data del vostro tour ero presente anch’io e, al momento dei saluti, ti ho visto davvero stanco. E mi è parso di percepire che questa stanchezza provenisse dalla difficoltà di oggi a rimanere in piedi nel vostro settore professionale.

F- Si… perché guarda, noi siamo usciti adesso con Infinito, un anno dopo l’uscita di OPS!; sto facendo interviste radiofoniche dove mi chiedono “com’è il nuovo album dei RIO”.. vedi, quella è una sorta di demoralizzazione.

M- Tornando a te. Quando hai detto a mamma e papà: Voglio fare il musicista.. ?

F- Guarda, mio padre è un personaggio particolare...scriveva poesie, era un pittore naif, aveva un estro artistico tutto suo  e questo suo essere originale si è poi trasmesso a me. Con tutti i pregi e i difetti credo che l’importante sia stare bene con se stessi.

Era comunque preoccupato; io lavoravo in catena di montaggio, mi facevo le mie 8/9 ore , tornavo a casa alle cinque e mezza di sera e dopo la doccia andavo a suonare fino a tarda notte, svegliandomi  poi alle sette e mezza. E così per quasi tutti i giorni della settimana. Mentre lavoravo, a fianco della mia postazione tenevo un quaderno sul quale scrivevo testi e parole, ma non tanto con l’idea di poterle poi cantare su un palco…era più che altro qualcosa di personale. Per me, era già abbastanza già avere i colleghi che si divertivano  ad ascoltarmi mentre cantavo , e vedendo che questa cosa li faceva stare bene, di conseguenza stavo bene anche io.

M- Però uno ci spera sempre di sfondare..

F- Mah, a esser sincero per me non era una necessità. La necessità mia era quella di esser ascoltato. Ammetto che però quando andavo a vedere gli altri gruppi mi dicevo “cavolo, vorrei farlo anch’io!” Ripeto, non era tanto per il pubblico o per la notorietà; era qualcosa per me, volevo quel microfono e cantare le mie parole.

M- Parlando appunto di concerti, qual è il primo che hai visto?

F- Mi ricordo Pierangelo Bertoli. Avevo circa 15-16 anni e all’epoca c’era una grossa discoteca a Gualtieri, una delle più grandi dell’Emilia Romagna, e faceva anche concerti. Anzi aspetta, me ne ricordo anche un altro in piazza a Guastalla , Fabio Treves, che è tutt’ora uno dei più autorevoli armonicisti bluesman italiani.

Tornando al primo, c’era questo signore in carrozzina, io lo vidi da 2 metri (all’ora si poteva stare vicinissimi al palco, non come adesso..) ero seduto su questi tre gradini e nonostante fossi “piccolo” è riuscito a colpirmi tantissimo.

M – E invece quello che ti sei detto “per fortuna che c’ero?”

F- Jeff Buckley. Jethro Tull, Black Sabbath, Anthrax.. ne ho visti tanti, ma con Jeff Buckley mi son detto “ cazzo, questo qui cambia qualcosa!” aveva una voce...un suono che mi ha sconvolto. E nonostante fosse raffreddato, ci “ha mandato tutti a casa!“ 

M- Se le tue figlie ti dicessero: papà voglio fare la cantante?

F- Dimostramelo. Ci sono tante difficoltà, tanti pali che si incontrano in questo mestiere,  e se deve diventare il tuo lavoro, devi esserne consapevole e devi scoprirlo da solo. In casa la musica non manca mai, ma non me la sento di insistere e spingerle in questa direzione. La musica ti deve chiamare da dentro.

M- Quando è stato il tuo momento più critico?

F- Lo sto vivendo adesso. Sono cambiati i meccanismi, è cambiato il mondo musicale come lo conoscevo io. Tu ti devi adattare, non solo al genere musica del momento ma anche a tutti quei sistemi che ci sono dietro. Le radio non danno più quello spazio che magari prima ti concedevano. Ora ci sono i big che si prendono una fetta, la pubblicità se ne prende un’altra, le case discografiche impongono i loro artisti prendendosi un'altra fettina e un’altra ancora è presa dai ragazzi dei talent. Purtroppo di spazio disponibile ne rimane davvero poco.

M- …e i social?

F- I social sono molto utili per poter arrivare ad un ampio pubblico, per arrivare senza dover passare attraverso i mezzi di comunicazione più comuni come la radio e la televisione. Nulla togliere alla televisione che rimane un canale di fondamentale importanza, in quanto riesce a rilanciare artisti quasi scomparsi dalle scene musicali. Infatti molti artisti degli anni’90 sono tornati alla ribalta e hanno ripreso a vendere tantissimo grazie alle apparizioni televisive, spesso e volentieri come giudici dei talent.

M- Nei testi dei RIO canti spesso di amore, gioia, serenità e spensieratezza… posso chiedere che rapporto hai con la morte?

F- A 15-16 anni pensi di essere immortale, e fai delle cose che con il senno di poi ti rendi conto di quali cazzate hai fatto e da che buchino piccolo sei riuscito a venire fuori. Avendone passate tante ed essendo di natura una persona chiusa e malinconica, ho scoperto che in realtà i rio, le loro canzoni i temi che portiamo sui palchi fanno stare bene le persone e di conseguenza ho capito che quello era ciò che volevo fare, che mi colmava… è il mio posto nella vita.

M- Domanda a brucia pelo: è più importante la serenità o la felicità?

F- La felicità dura davvero poco. La serenità è altrettanto rara ma dura di più; è fatta di un insieme di attimi e di momenti… Paradossalmente il nostro momento di maggiore serenità è coinciso con il terremoto del 2012. Abbiamo creato questo disco che si chiama “Fiori” e con più musicisti e artisti abbiamo cercato di donare alla gente una bolla d’aria dove potesse rifugiarsi.

M- Potendo immaginare con chi collaborare artisticamente…

F- Più che con un artisti amerei collaborare con un produttore che mi aiuti a tirare fuori ciò che ancora non sono riuscito a fare io… Sono un gran testone e mi piacerebbe lavorare con Rick Rubin, produttore che ha riportato agli occhi degli americani Johnny Cash, che ha lavorato con Slayer e Red Hot Chili Peppers, e che è riuscito a creare un suono nuovo unendo i Beastie Boys e i Run DMC.

M- Ultima domanda. Cosa vuoi fare da grande?

F- Mi piacerebbe mettermi alla prova con ciò che  non ho ancora fatto… Ma c’è qualcosa che invece vorrei continuare a fare… cioè vivere la musica così come l’ho sempre vissuta fino ad ora. Vorrei ritrovare quella serenità che mi permette di far star bene anche gli altri. L’età ti porta ad avvicinarti ad una sorta di cinismo che ti allontana dalla fanciullezza… Vorrei scrivere una nuova “Gioia nel cuore”,… questa è la mia vita e voglio continuare ad essere quel pagliaccio capace di far star bene la gente.

Matteo Marrone


Redazione Pressa
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