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Ucraina: dal mito filo-nazista di Stepan Bandera a Bella Ciao

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Nel dicembre del 2018 la Rada ucraina ha proclamato festa nazionale il giorno della nascita di Bandera: in Occidente nessuno ha protestato


Ucraina: dal mito filo-nazista di Stepan Bandera a Bella Ciao
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Uno dei capisaldi più granitici dell’odierna cultura egemone dell’occidente – tra cancel, woke, gender, black live matter, et alia – è senza dubbio l’antifascismo. Bella ciao, canzone partigiana per eccellenza, pur se mai cantata da un solo partigiano perché scritta almeno dieci anni dopo la fine della guerra, risuona in tutte le piazze libertarie del nostro mondo a inesorabile condanna del male assoluto, mentre i media non perdono occasione per denunciare i pericolosi rigurgiti nazifascisti che si anniderebbero in ogni dove. Dal 24 febbraio, en l’espace d’un matin, nella Russia di Putin si è materializzato il nuovo volto del nemico nazista e l’Ucraina è diventata l’eroico avamposto delle “democrazie liberali” contro l’Hitler redivivo.

Ai nostri politici e ai mass media con l’elmetto calato sotto agli occhi è apparso del tutto ininfluente che sia stata proprio la Russia – seppure sotto la guida tirannica del regime staliniano – a demolire a suo tempo per oltre l’80 per cento la forza delle armate tedesche; così come è completamente sfuggito che nel pantheon degli eroi dell’odierno regime di Kiev appaiano personaggi che all’epoca si dimostrarono epigoni fedeli del regime nazista e ne seguirono le sorti. Questo non è il primo dei paradossi che presenta la storia, ma certo è un segnale molto indicativo di quel moralismo senza morale che caratterizza le odierne classi politiche occidentali al traino degli Stati Uniti, disposte a tutto anche di glorificare il diavolo purchè si metta al servizio della propria causa.

Nella kermesse propagandistica di questi giorni di guerra, giornali e televisioni nostrani sono andati letteralmente in solluchero nel diffondere la versione ucraina di Bella Ciao della cantante folk Khrystyna Soloviy, presentata come erede dei partigiani nostrani contro i nuovi nazisti; nessuno ha però notato che questa commovente paladina della lotta partigiana, che accompagna al canto il gesto eloquente di tagliare la gola al nemico, sugli stivali porti stampato lo slogan dell’estrema destra nazionalista “L’Ucraina è mia madre, Bandera è mio padre”. Anche Amazon contribuisce al finanziamento dei buoni ideali, consentendo l’acquisto sulla propria piattaforma digitale di ogni genere di gadget (magliette, tazze, patch) della formazione ucraina Azov, nel cui stemma campeggia il Sole nero con svastiche stilizzate, e il Wolfsangel, runa germanica presa a simbolo di numerose formazioni naziste durante il Terzo reich. Questa unità paramilitare divenne nota, insieme ad altri gruppi di estrema destra come Pravyj Sektor, per essere stata il braccio armato del putsch, meglio noto da noi come “rivoluzione di Euromaidan”, che nel 2014 disarcionò il presidente eletto Viktor Yanukovich. Dopo essere stati inquadrati nella guardia nazionale ucraina come Reggimento operazioni speciali, i circa duemila uomini di Azov da otto anni combattono in prima linea nel Donbass quella guerra a bassa intensità che l’Europa ha preferito non vedere fintanto che sotto le bombe a cadere erano soltanto i civili russi. Nel corso degli anni, Azov, armato e addestrato da consiglieri americani e britannici, è diventato uno dei gruppi d’elite più agguerriti dell’esercito ucraino, e ora svolge l’improbabile ruolo di bastione delle democrazie nella Mariupol assediata dai russi. La propaganda del nostro circo politico-mediatico si guarda bene dal rammentare quali siano gli obiettivi di questi campioni della nostra libertà: secondo il loro comandante, il “Führer bianco” Andrij Biletskiy, la missione storica della nazione ucraina è quella di “guidare la crociata della razza bianca contro gli esseri subumani guidati dai semiti”.

Sarebbe troppo semplicistico ridurre l’importanza di Azov e della galassia dei gruppi che oggi in Ucraina, con sfumature diverse, si richiamano al nazismo, al razzismo suprematista et similia, guardando solo al numero relativamente limitato dei loro militanti in armi; in realtà, queste formazioni rappresentano l’espressione più coreografica ed estrema di una cultura ultranazionalista che si è andata progressivamente radicando in Ucraina dopo l’indipendenza, fino a diventare un tratto importante della sua odierna identità storica e politica.

Ukraine significa terra di confine, e in questo nome si riassume il destino dell’enorme territorio compreso tra i Carpazi a ovest, il mar Caspio a est, e il mar Nero a sud e le pianure russe a nord, che per secoli fu teatro di contesa tra l’impero zarista, la confederazione lituano-polacca, il sacro romano impero austriaco e l’impero turco. Dal 1500 fin quasi alla fine del 1700, i polacchi e i russi esercitarono alternativamente la propria influenza su quelle “terre selvagge” scarsamente popolate, delegando l’esercizio del potere alle tribù nomadi cosacche semistanziali sul fiume Dnepr, principalmente per contenere i turchi che dominavano la sponda settentrionale del mar Nero. Falliti i ripetuti tentativi degli hetman cosacchi di guadagnare la piena indipendenza, alla fine del 1700 i territori dell’odierna Ucraina, a eccezione della Galizia e della Bucovina a occidente in possesso degli austriaci, passarono sotto il dominio diretto degli zar con il nome di Novorossiya, Nuova Russia.

Dopo la prima guerra mondiale, nel 1922 la Repubblica sovietica dell’Ucraina entrò a far parte dell’URSS; rimanevano esclusi i territori occidentali dell’ex impero austro-ungarico che erano stati conquistati dal nuovo stato polacco indipendente. E fu proprio in un piccolo villaggio della Galizia ai piedi dei Carpazi che, nel 1909, nella famiglia di un sacerdote uniate di rito greco-cattolico nacque Stepan Bandera, considerato oggi da molti come il precursore della moderna nazione Ucraina indipendente. Coinvolto fin da giovanissimo nell’Organizzazione clandestina dei nazionalisti ucraini (OUN) attiva nelle aree polacche di lingua ucraina, Bandera divenne uno delle figure di spicco del movimento per aver organizzato, nel 1934, l’assassinio del ministro dell’Interno polacco Bronisław Pieracki. Condannato all’ergastolo, Bandera venne liberato dai nazisti nel 1939, a cui si associò sia perché ne condivideva i capisaldi ideologici sia perché era convinto che la Germania avrebbe conquistato i territori polacco-ucraini, in quel momento occupati dai sovietici in base al trattato Ribbentrop-Molotov, e consentito la nascita di uno stato indipendente ucraino. La stretta collaborazione con i nazisti e la completa adesione al progetto di un’Ucraina indipendente nell’orbita del grande Reich germanico condussero il leader indipendentista alla rottura con l’ala nazionalista più moderata dell’OUN.

Nel giugno 1941, Bandera e i suoi uomini erano al seguito delle armate naziste nell’invasione dell’Unione sovietica, collaborando con gli Einsatzgruppen nei primi sanguinosi pogrom in Galizia di cui furono vittime migliaia di polacchi ed ebrei. Nelle città furono affissi manifesti dell’OUN che inneggiavano a Hitler e a Bandera e che incitavano, in nome della rivoluzione nazionale ucraina, “a sterminare senza pietà i polacchi, gli ebrei e i comunisti”. Il 30 giugno 1941 Bandera proclamò unilateralmente a Leopoli l’indipendenza dello stato nazionale ucraino, sperando che fosse concessa all’Ucraina la condizione di stato satellite del Reich, come già era accaduto per la Slovacchia di Josef Tiso e la Croazia di Ante Pavelic. Al contrario, la dichiarazione indipendentista non fu ben accolta dai dirigenti nazisti, che apprezzavano Bandera e i suoi uomini come preziosi collaboratori nel disegno di dominio dei popoli slavi, ma certo non al punto di consentire loro la creazione di uno stato anche solo formalmente indipendente. Per impedire che interferisse nei loro piani, i tedeschi arrestarono Bandera e tra il 1942 e il 1944 lo internarono nel campo per prigionieri politici di Sachsenhausen, in condizioni relativamente confortevoli.

Le attività dei Bandе́rovtsy, organizzati in Galizia, Volinia e Bucovina nell’Esercito insurrezionale ucraino (UPA) sotto la guida del braccio destro di Bandera Roman Shukhevych, proseguirono per tutta la durata della guerra. Le violenze dell’UPA ebbero il loro culmine nei massacri della popolazione polacca della Volinia del luglio-agosto 1943, che avevano lo scopo di ripulire etnicamente tutti i territori che avrebbero dovuto fare parte di un futuro stato ucraino indipendente. Si calcola che le vittime polacche dell’UPA in Volinia e Galizia siano state circa centomila. Nel 2016 il parlamento polacco ha definito come genocidio le sistematiche violenze perpetrate dall’UPA tra il 1941 e il 1944 e nello stesso anno è uscito il film Volhynia del regista polacco Wojciech Smarzowski, che per la prima volta descrive questa dimenticata e tragica pagina di storia della seconda guerra mondiale.

Liberato definitivamente dai nazisti nel 1944, Bandera si adoperò nuovamente al loro servizio per rallentare l’avanzata dei sovietici, organizzando contro di loro azioni di guerriglia che proseguirono anche dopo la fine del conflitto. Nel 1950 Shukhevych cadde in un conflitto a fuoco con agenti del NKVD presso Leopoli, segnando di fatto la fine della resistenza armata nell’Ucraina sovietica. Il capo dell’indipendentismo ucraino riuscì invece a riparare in Germania sotto la protezione dei servizi segreti occidentali, che pensavano potesse tornare loro utile in chiave antisovietica, fino al 1959 quando a Monaco di Baviera venne eliminato da un agente del KGB.

Sulle imprese di Bandera e dell’UPA negli anni della guerra cadde l’oblio fino alla dissoluzione dell’URSS. Nel 1991, conquistata finalmente quell’indipendenza che mai prima aveva conosciuto nella sua storia, come tutti i nuovi stati l’Ucraina ebbe la necessità di individuare nel proprio passato gli elementi unificanti di una nuova coscienza nazionale. Composta per circa il 75 per cento da ucraini, per il 20 per cento da russi e per il resto da una ventina di altre piccole minoranze, l’Ucraina è tutt’altro che un paese omogeno, e certo l’ultimo personaggio capace di sanare la memoria delle profonde divisioni che storicamente hanno costellato la sua storia poteva essere un personaggio intimamente connesso con il nazismo e la violenza etnica come Stepan Bandera. Eppure, l’affermazione, soprattutto negli ultimi anni, di un nazionalismo identitario sempre più intransigente ha finito per promuovere Bandera al rango di padre e profeta della patria ucraina. Nel 2006 la città di Leopoli ha annunciato il trasferimento nel locale cimitero dei resti di Bandera e di altri “eroi” dell’indipendentismo ucraino e nel 2007 la stessa città a eretto in suo onore una grande statua promuovendo contestualmente un premio a lui dedicato. Nel 2009, nel centenario della nascita, le poste ucraine hanno emesso una serie di francobolli commemorativi e nel 2010 il presidente Viktor Yushchenko attribuiva a Bandera e a Shukhevych il titolo di eroi dell’Ucraina “per aver difeso le idee nazionali ed essersi battuti per uno stato indipendente ucraino”. All’epoca, l’Europa ebbe un sussulto di fronte alla legittimazione così plateale di un leader filonazista e il Parlamento di Strasburgo chiese ufficialmente a Yushchenko il ritiro del provvedimento, che avvenne non senza qualche imbarazzo l’anno successivo. La glorificazione del “padre della patria” tuttavia non si arrestò e nel dicembre del 2018 la Rada ucraina ha proclamato festa nazionale il 1° gennaio, giorno della nascita di Bandera. Stavolta le proteste occidentali sono rimaste accuratamente chiuse nel cassetto, poichè nel frattempo con Euromaidan l’Ucraina aveva cambiato campo, e anche un così discutibile personaggio poteva tornare utile per rinfocolare il fronte contro il nuovo nemico comune, la Russia. E’ un vero peccato che questo sfortunato paese abbia scelto di coltivare la memoria di simili eroi del proprio passato.

Giovanni Fantozzi - storico

Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi
Giovanni Fantozzi, giornalista e storico. Si occupa della storia modenese e in particolare del periodo della Seconda Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Tra le sue pubblicazioni:
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