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Questa volta ha proprio ragione il sindaco Muzzarelli quando, introducendo il progetto culturale del Sant'Agostino, presentato oggi, chiamato 'Ago Modena Fabbriche culturale', ha affermato: 'Serviva un nome'. Ago, appunto. Insieme ad un logo. Serviva, si, per concentrare l'attenzione, anzi distogliere l'attenzione, non solo sull'assenza di un progetto architettonico atteso da 15 anni ma, dopo la presentazione di oggi, anche, evidentemente, sull'assenza di una proposta culturale di merito per ripensarli, quegli spazi, dando loro una visione di insieme e di futuro, degna di essere chiamata tale. Degna di Modena. Degna di una cultura con la C maiuscola, quella capace di dare un senso, un orizzonte concettuale, un indirizzo, una prospettiva, un senso, che ancora, a quasi venti anni dalla dismissione e dall'abbandono di quegli spazi, e da quei progetti che dovevano farli risorgere, non c'è.
Nemmeno in termini di memoria all'interno di quel costoso volumetto di 80 pagine ampio come il vuoto di cui è espressione, in cui il futuro della cultura modenese viene ridotto alla stregua di un catalogo da outlet di mobili, che viene distribuito insieme alla cartella stampa. Simbolo di una cultura che quel senso fondante l'ha perso e tenta disperatamente di trovarne un altro nella parcellizzazione delle conoscenze e dei saperi frammentati, nella moda e nei tratti grafici del momento.
Ed è così che l'attesa presentazione dei contenuti, o presunti tali, del progetto culturale del Sant'Agostino (estremo tentativo di supplire al fallimento e ai ritardi, almeno nella tempistica elettorale, del progetto architettonico), si trasforma nel suo contrario, nella sua negazione. Perché un progetto realistico, di prospettiva, e di visione, di identità culturale per Modena, non c'è. E, visto questa presentazione, non ci sarà.
C'è solo un nuovo, ennesimo paravento fatto di dichiarazioni di intenti, di roboanti slogan, di inglesismi alla moda, alla stregua di quelli che sul Sant'Agostino si sono susseguiti. Dal 1995 fino ad oggi. Da quando l'ex sindaco Barbolini (presente oggi a quella stessa presentazione), annunciava il progetto di creazione di un polo culturale con tanto di porta progettata dall'Archi-star Ghery.
Ne sono consapevoli gli invitati, obbligati ad ascoltare per più di un ora al freddo, in piedi, in attesa di qualcosa che non arriva mai semplicemente perché non c'è, sermoni laici su sedicenti visioni di futuro che all'interno del Sant'Agostino si dovrebbero e si potrebbero elaborare. Nei laboratori concettuali, così come nelle biblioteche digitali annunciate. Con il tempo, ma gia' a partire, dicono, dal febbraio e dalla prossima primavera. Dal pieno della campagna elettorale. Espressi dai concetti trend legati all'internet delle cose, alle digital Humanities, ai metodi computazionali capaci di stabilire formati standardizzati e interoperabili e di knowledge design. Questo dicono davanti ad un plastico anonimo, freddo, che rappresenta il comparto, realizzato in scala con blocchi a strisce colorate, ad identificare sulla base del colore le diverse destinazioni degli spazi che ancora oggi non si sa se potranno essere realizzati o ritrutturati. Blocchi che vediamo stampati nei totem, tenuti in mano dai responsabili degli istituti culturali della città immortalati ed associati al simbolo (gli elementi del Sant'Agostino rappresentati in blocchi colorati), di ciò che non è stato. Di uno spazio che ancora oggi, dietro alcuni pannelli e paraventi, rappresentano desolazione, abbandono, buio. Che nemmeno le luci laser proiettate sulla facciata dell'ex ospedale possono e riescono a nascondere. Che nemmeno quegli attori del Teatro dei venti o quei dj di musica elettronica, distribuiti come in occasione del festival filosofia, nei corridoi sotterranei in cui pazienti un tempo transitavano e dove c'erano le camere ardenti, riescono a riempire. Perché il vuoto non si riempie. Nemmeno mettendoci dentro tante cose, soprattutto accumulate l'una sull'altra, senza una logica, senza una prospettiva, senza un obiettivo, senza una visione, senza un progetto capace di privilegiare una buona volta, i contenuti ai contenitori. Come fino ad ora è successo e come, viste le premese, forse continuerà a succedere. Perché in ciò che è stato visto e mostrato oggi, mancano proprio gli aspetti che vengono spacciati come gli obiettivi stessi del progetto culturale: l'integrazione tra passato e futuro e la loro rappresentazione, la ricucitura tra una parte e l'altra di via Emilia Centro che divide il palazzo dei musei dal Palazzo Sant'agostino. In soldoni, la capacità di costruire, dare identità, mission, senso, alla cultura a Modena. Cosa che non è avvenuta negli ultimi venti anni e che oggi si ripresenta sul tavolo di chi, anni fa, doveva risolverla.
Gianni Galeotti