Questa tela di Chagall, per il suo soggetto provocatorio, scatenò subito molte polemiche: Gesù in croce, vestito con il tallit – scialle usato dagli ebrei per la preghiera – e attorniato da simboli e riferimenti alla persecuzione antiebraica: figure di persecutori, donne in pianto, profughi ebrei che fuggono a piedi e in barca, case rovesciate in fiamme, gente che allarga le braccia per la disperazione.
Eppure Chagall, utilizzando il linguaggio sfidante degli artisti, lanciava un chiaro messaggio di pace: Cristo crocifisso per lui non era quel muro che, agli occhi di molti, divideva il mondo cristiano da quello ebraico; ma diventava quel ponte che univa i due mondi, quasi un concentrato della sofferenza ingiusta, assurda e cieca che gli ebrei, insieme a molti altri, stavano subendo ad opera dei persecutori e dei carnefici. Nella sua figura e vicenda personale, Chagall incrocia diverse culture: ebraica, russa, europea occidentale, americana.
A me sembra che da quest’opera, molto amata da papa Francesco, provenga una luce particolare. Quel fascio bianco, scintillante, che investe Gesù in croce, è un solco di speranza acceso nel nostro cuore. Per noi cristiani è il simbolo della risurrezione, che rischiara il buio della morte; per tutti gli esseri umani è spia del bene che vince sul male.
Come per dirci che con le nostre sole forze siamo incapaci di raggiungere la luce; abbiamo bisogno di implorarla e riceverla. In questa Pasqua la guerra coinvolge con particolare violenza i mondi che segnano le origini di Chagall, ebraico e russo. Ciascuno di noi, singoli e comunità, ha in dotazione la scala per accedere alla luce: se non la riporremo nella cantina dell’indifferenza, sarà una “buona Pasqua”.
Mons. Erio Castellucci