Nessuno – a quanto mi risulti – ha mai seriamente proposto l’abolizione del carcere. È evidente che, quando ne ricorrono le condizioni, carcere deve essere. Ma ciò non significa che questo carcere funzioni ovvero – e detto altrimenti – che questo carcere non possa e non debba essere ri-pensato. Questo carcere è pensato semplicemente per isolare. Ma, così ‘settato’, è inutile. Perché non è in grado di stimolare nel condannato nessuna vera riflessione auto-critica capace di condurre spontaneamente lo stesso ad abbracciare nuovi e (più) valoriali percorsi di vita.
Quando si ragiona di sicurezza delle nostre città e, dunque, di reati di strada, è certamente vero che una maggiore presenza sul territorio delle forze dell’ordine inciderebbe positivamente in primis sul piano proprio della dissuasione. Attenzione, però, perché, come noto, un’eccessiva presenza sul territorio delle forze dell’ordine è cosa destinata a produrre inevitabilmente un’immediata sensazione di militarizzazione. La qual cosa, come altrettanto noto, andrebbe ineluttabilmente ad incidere negativamente sul piano proprio della sicurezza percepita. F come forze dell’ordine.
Francamente fa sorridere che, (solo) quando si ragiona di sicurezza delle nostre città e, dunque, di reati di strada, si arrivi ad invocare una maggiore presenza sul territorio delle forze dell’ordine.
Questo è un paese – la parola 'paese' è volutamente scritta qui con la p minuscola – nell’ambito del quale i cattivi maestri sessantottini – quelli che, ancora oggi, vedono carabinieri che inseguono ragazzi che scappano in vespa per le vie di Milano – hanno insegnato che sputare in faccia a poliziotti e carabinieri non è reato.
I giornalisti informano. A prescindere dal momento. Né si può chiedere loro di informare in un secondo momento, essendo il primo pretesamente inopportuno. Perché, come ricordato anche da Maurizio Belpietro in occasione della recente sesta edizione di Festival della giustizia penale, se c’è la notizia, il giornalista la pubblica. Punto. Nello spirito liberale che sempre dovrebbe essere proprio della nostra società, peraltro, giudico corretto il fatto che anche i giornali e le televisioni, nel pubblicare le notizie, perseguano altresì loro proprie visioni politiche e culturali della realtà. Politica e stampa sono entrambe libere di fare il proprio gioco. Si chiama democrazia.
Sono decenni che i Governi italiani – di qualunque colore politico – re-agiscono all’insicurezza delle nostre città legiferando sull’onda dell’emozione popolare, inasprendo continuamente le pene previste per i reati di strada. È pura demagogia, questa, che deve essere denunciata in quanto tale. E perché nessun giudice, in concreto, applicherà mai consimili sproporzionate pene. E perché, comunque, il fatto che, nonostante ciò, i reati di strada continuino a verificarsi attesta ex se che consimili sproporzionate pene non rappresentano la soluzione del problema. N come numeri.
I numeri, anche quando si ragiona di sicurezza delle nostre città e, dunque, di reati di strada, sono certamente importanti. In primis, in positivo. Perché è certamente vero che i numeri inerenti ai reati di strada sono tendenzialmente in calo da anni – né chi l’afferma, affermando il vero, può essere accusato d’affermare il falso –. Ma i numeri – attenzione – sono altrettanto certamente importanti anche in negativo. Perché, quando si ragiona di numeri tendenzialmente in calo, in questa materia, non è latente il rischio che ci si sieda, dimenticandocisi con ciò – questo è il punto – che è sufficiente che si verifichi anche un unico reato di strada affinché si abbia una vittima e, con essa, anche drammatiche, quanto inaccettabili, conseguenze.P come pena.
Premesso che la pena è ‘solo’ quella prevista dal codice penale – non esistono pene esemplari –, il punto è: è sacrosanto che lo Stato punisca gli autori dei reati, ivi compresi quelli di strada. Ma, se davvero si vuole che il sistema penale ritorni ad essere efficace – cosa che oggi certamente non è più –, non è sull’inutile versante del continuo inasprimento delle pene che bisogna lavorare, bensì su quello, affatto dissimile, d’una giusta efficienza della giustizia: se i processi penali devono essere celebrati celermente, le pene – quelle previste dal codice penale – devono essere certe. R come repressione.
Quando si ragiona di sicurezza delle nostre città e, dunque, di reati di strada, s’invoca sempre più spesso la repressione. Corretto: perché la repressione, anche in questi casi, è sacrosanta. Attenzione, però, perché, quando ci si limita ad invocare la repressione come se la stessa rappresentasse la classica panacea, si corre il rischio di dimenticare che essa contrassegna ex se il fallimento del sistema penale. Quando ci si trova costretti a pronunciare la parola repressione, infatti, ciò significa che si è già verificato un reato (di strada). Ma se si è già verificato un reato (di strada), il sistema penale, in sé considerato, ha già fallito. Perché c’è già una vittima alla quale attestare solidarietà. La repressione è importante. Ma la vera chiave di lettura del match è la prevenzione.S come sicurezza.
La sicurezza delle nostre città dipende anche e soprattutto dalla sicurezza percepita. Perché la sicurezza percepita è cosa che incide con la i maiuscola sulla percezione della realtà e, dunque, per quel che qui importa, sulla qualità della vita. Se, nelle strade, ad essere percepita è insicurezza, benché si ragioni di numeri tendenzialmente in calo, il problema resta serio. Ciò detto, il punto è: in occasione della recente sesta edizione di Festival della giustizia penale, nel ragionare di sicurezza delle nostre città sub specie di (baby) gang, (pur) attraverso linee di ragionamento diverse, figlie di impostazioni politico-culturali diverse, tanto Massimo Mezzetti quanto Roberta Bruzzone hanno tentato ricostruzioni crimino-genetiche del fenomeno, individuando nella rabbia, il primo e nella fragilità, la seconda, il minimo comun denominatore dello stesso.
In entrambi i casi, non sono mancate strumentalizzazioni, come se imputare la genesi del fenomeno alla rabbia – evidente – ovvero alla fragilità – evidente – delle giovani generazioni significasse sotto-valutare le gravissime conseguenze proprie dello stesso e non, invece – e come chiaramente chiarito da entrambi –, tentare di metterne correttamente a fuoco le cause per poter fruttuosamente intervenire sul piano culturale e, dunque, preventivo.
Queste strumentalizzazioni – di destra, nel primo caso, di sinistra, nel secondo –, a mio parere, sono semplicemente inutili: il fenomeno delle (baby) gang è certamente un fenomeno che affonda le proprie radici in problemi – rabbia e fragilità – di carattere culturale.
Né affermare ciò nel tentativo – ripeto – di metterne correttamente a fuoco le cause per poter fruttuosamente intervenire sul piano culturale e, dunque, preventivo significa essere ‘buonisti’.
Il punto, a ben guardare, è che, quando si ragiona di sicurezza delle nostre città e, dunque, di reati di strada, bisognerebbe – ripeto – davvero partire dal presupposto che, se la repressione è importante, la vera chiave di lettura del match è la prevenzione. Perché la polizia, nelle strade, può certamente contenere la patologia, ma non potrà mai governare la fisiologia.
Da questo punto di vista, finché continueremo a strumentalizzare la questione continuando a giocare a ‘destra-sinistra’, difficilmente saremo in grado d’intervenire sul piano culturale e, dunque, preventivo sulla rabbia e sulla fragilità giovanili che rappresentano il principale serbatorio delle (baby) gang.
Con la conseguenza che la moneta – l’unica – con la quale saremo ri-pagati continuerà ineluttabilmente ad essere quella dell’insicurezza delle nostre città.
Guido Sola