Quanto posto dal Presidente della regione Emilia-Romagna, precedentemente sottolineato anche dal presidente del Veneto, è questione serie ed esiziale per la sostenibilità nazionale, e non locale, del nostro SSN universalistico. Come tale, è fortemente auspicabile che tutti si partecipi ad un dibattito il più ampio e pubblico possibile per indirizzare la discussione a soluzioni e non a generiche ed impreparate analisi esclusivamente elettorali o demagogiche prive di alcuna efficacia ed utilità. Il forte annuncio viene non a caso dalle due regioni, che dai report disponibili al Ministero per il 2023, raccolgono (insieme anche alla Lombardia) il 93,7 del saldo attivo della mobilità sanitaria. Vuol dire in parole povere che si spostano quasi 5 miliardi di fondo nazionale da tutta Italia verso queste tre regioni, che attraggono da sole qualche decimale oltre il 50% dei pazienti che si spostano.Il nostro SSN permette di spostarsi per ricevere prestazioni sanitarie che appartengano ai LEA (livelli minimi essenziali individuati) e che di norma non dovrebbero essere disponibili nel proprio sistema regionale per chiederle altrove. Ma quello che tali numeri dipingono non può essere definito né un flusso di carenze e nemmeno una scelta dei cittadini, bensì una vera e propria fuga da una collettiva percezione di piena insufficienza e profonde disuguaglianze e disomogeneità nelle proposte assistenziali del resto del Paese.
La lievissima flessione dei dati, rispetto al 2022, legata ad una riduzione di ricoveri per l’alta complessità (che ha maggiormente interessato la Lombardia a differenze del costante dato incrementale di Emilia e Veneto) ed un parziale miglioramento dei saldi negativi di Campania e Lazio, non consegna un panorama nazionale che inverta sostanzialmente il trend. Questa vera e propria frattura tra un terzo del paese ed i restanti due terzi va, quindi, ben oltre la definizione dì criticità e come tale è inutile continuare ad affrontarla da parte della politica con mezzi privi di strumenti analitici e profondamente tecnici oltre che culturali.E’ una frattura che rispecchia ormai plasticamente la medesima e trasversale frattura che negli ultimi decenni ha attraversato i partiti tra esperienza politica e competenze, disarmando di capacità di analisi e di pronte risposte la complessità in cui si torceva il nostro SSN.Il definanziamento e la mancanza di appropriatezza nelle prestazioni esigite hanno combinato consumismo e mancati investimenti in risposta ai costi crescenti di inflazione e innovazioni tecnologiche.
Allora diventa prioritario sviluppare complessità di ragionamento e soluzioni a cominciare non solo dal rapporto con PIL del fondo sanitario, ma soprattutto dal comprendere che è anacronistico continuare a pensare che i pochi fondi vengano distribuiti per quota pro-capite dei cittadini senza tener conto dei servizi, delle reti e delle strutture (come peraltro inserito nel DM 70 e poi 77, in modo schizofrenico con la parallela visione di finanziamento per cittadino) che i territori mettono in campo. Come evidentemente lo sarebbe sintetizzare il tutto con un semplice scivolamento delle risorse dal centro-sud al rimanente terzo del paese locato a nord che le assorbirebbe insieme ai pazienti in mobilità (fuga!). Rimarrebbe, quindi, logico centrare il ragionamento su due cardini: la mobilità per l’alta complessità con finanziamenti aggiuntivi per funzioni e risultati misurabili, e “veicolare” i pareggi di bilancio delle regioni in funzione dell’uniformità assistenziale per l’intero Paese. Ma se questi due elementi entrano addirittura paradossalmente in conflitto a causa di una mancanza di visione e regia strategica unitaria e nazionale, perché le regioni in perdita hanno la pretesa di ridurre il debito incrementando gli sforzi per l’alta complessità (con dati numerici misurabili ma non noti indicatori di risultato) invece di risolvere prioritariamente la riduzione della fuga della media e bassa intensità (dai numeri assoluti molto più alti), l’insostenibile
peggioramento della criticità e delle liste di attesa (in competizione tra cittadini della regione e cittadini da fuori regione) diventa, come gridato dai presidenti di Veneto ed Emilia, quantitativamente oppressivo ed ingestibile. Il riequilibrio dei diritti alle cure impone evidentemente interventi urgenti e strutturali che richiedono visioni politiche prive di ideologie e interessi privatistici e forti competenze tecniche e professionali da integrare nelle esperienze politiche. Agli investimenti necessari rispetto al PIL servono irrinunciabilmente anche riforme e pensieri innovativi che partano da analisi e concretezza, in grado di scardinare la semplificazione inerziale su cui scivolano ancora ad oggi crisi e soluzioni. La sanità non è più interpretabile come un “servizio” (al pari di trasporti e comunicazioni). O lo si interpreta come un “patrimonio di comunità a servizio” oppure diventa difficile costruire la necessaria unione di intenti sociale e culturale.
Dr. Andrea Leti Acciaro - Segretario circolo sanità Pd di Modena