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'Non possono essere 42 le vite vere destinate ad andare in mille pezzi ogni 100 processi penali che lo Stato decida di celebrare. Leggo le dichiarazioni di Cesare Parodi, quelle rilasciate a margine dell’incontro Governo-Associazione nazionale magistrati avente ad oggetto la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, e rifletto, perplesso, sul fatto che il presidente del cosiddetto sindacato delle toghe abbia espressamente parlato, nell’occasione, di «momento di chiarezza»'.
A parlare è l'avvocato modenese Guido Sola, all'indomani dell'incontro a Palazzo Chigi, presieduto dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, tra il Governo e l'Associazione Nazionale Magistrati alla presenza dei vicepresidenti Tajani e Salvini, del Ministro della Giustizia Nordio e del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mantovano.
'Un ordine dello Stato, la magistratura, ha scioperato contro un potere, quello legislativo, dello stesso Stato e l’Associazione nazionale magistrati ha semplicemente salutato con favore il fatto che l’iniziativa, in sé considerata, non sia risultata fallimentare. Con maggior perplessità, ancora, peraltro, rifletto sul fatto che tanta stampa nazionale parli, oggi, con assoluta naturalezza, di strappo.
Di strappo, sulla riforma, tra Governo e magistratura. Come se fosse appunto naturale – legittimo? – che tra chi è chiamato a scrivere le leggi – Parlamento e Governo – e chi si dovrebbe limitare ad applicare le stesse – giudici e pubblici ministeri – si possano addirittura generare strappi. Prima considerazione. Nessuno dubita del fatto che, per poter applicare le leggi, giudici e pubblici ministeri debbano in primis interpretare le stesse. Parimenti, nessuno dubita del fatto che, nell’interpretare le leggi, giudici e pubblici ministeri non possano che essere guidati anche dalla propria personale sensibilità giuridica. Nessuno, nell'attualità, intende più negare, infatti, che la tradizionale impostazione illuministica, in base alla quale il giudice si sarebbe dovuto limitare ad applicare meccanicamente la legge, facendosene semplicemente bocca, rappresentasse la classica chimera. Ma ciò non toglie che un conto sia interpretare le leggi anche sulla base della propria personale sensibilità giuridica – e, dunque, anche sulla base della propria visione valoriale della società –, altro conto sia generare strappi contro chi – Parlamento e Governo appunto – quelle leggi è chiamato a scrivere. Perché generare strappi contro il potere legislativo, a conti fatti, significa, seppur surrettiziamente, pretendere di fare altre scelte valoriali. Ma fare scelte valoriali – quelle o altre, invero, non importa – significa fare politica. E la politica è – o dovrebbe essere – cosa per politici. Non anche per magistrati'.
'Seconda considerazione. Nell’articolo pubblicato quest’oggi su Il Dubbio, dal titolo Toghe e politica: due ore scarse di “cortesie” pensando già allo scontro finale, la brava Tiziana Maiolo ricorda come, dati a monte 100 processi penali di primo grado, si registrino a valle 97 sentenze di condanna. Il dato, in sé considerato, sembrerebbe essere positivo: se quelle 97 sentenze di condanna si dimostrassero immuni da vizi, infatti, ciò dimostrerebbe ex se che il sistema-giustizia funziona. Date a monte 100 richieste di rinvio a giudizio, infatti, le sentenze di condanna sarebbero ben 97. Peccato solo che le statistiche ministeriali attestino come, tra grado di appello e grado di cassazione, 39 delle anzidette sentenze di condanna – vale a dire il 40% delle stesse – siano destinate ad essere riformate siccome errate. È evidente che, così letto, il dato, in sé considerato, positivo, invero, non sembrerebbe essere più. Perché, date a monte 100 richieste di rinvio a giudizio, ben 42 saranno, così impostata la questione, le sentenze di assoluzione. Se quanto precede è corretto, allora la vera domanda è: davvero c'è qualcuno disposto a considerare efficiente un sistema che, nel passare dalla teoria alla pratica, erra nella quasi metà delle ipotesi prese in esame? - continua Sola -. Eppure il sistema-giustizia erra e, come detto, erra appunto nella quasi metà delle ipotesi.
Terza considerazione: da cosa dipende questo inaccettabile tasso di errore? In parte dipende dal fatto che la giustizia della quale qui si discorre non è la giustizia divina – che tutto filtra e corregge attraverso il prisma del dogma e della fede –, ma è la giustizia dell’uomo. E l’uomo – ricordava Voltaire – è fallibile e, dunque, sempre incline all’errore. Ma in parte, questo è il punto, dipende dal fatto che, nel passare dalla teoria alla pratica, i giudici sembrerebbero essere davvero e troppo spesso “schiacciati” sulle richieste della pubblica accusa, ovvero e detto altrimenti, sembrerebbero essere davvero e troppo spesso non equidistanti nel giudicare i fatti di causa. La qual cosa, a ben guardare, parrebbe dipendere evidentemente dall’eccessiva contiguità che, nell’ambito del nostro ordinamento giuridico, ancora oggi, si registra tra giudici e pubblici ministeri. Un’eccessiva contiguità, questa, che è semplicemente frutto del fatto che, finché le carriere di giudici e pubblici ministeri non saranno separate, giudici e pubblici ministeri saranno colleghi di lavoro e, dunque, contigui come, per loro stessa natura, sono i colleghi di lavoro. Ora. Se si considera che il protagonista del processo penale, l’imputato, non è un numero di registro generale, ma è una persona vera – una madre vera, un padre vero, una moglie vera, un marito vero, una figlia vera, un figlio vero, una professionista vera, un professionista vero – e che 42 sentenze di assoluzione ogni 100 richieste di rinvio a giudizio equivalgono a dire che, nella quasi metà delle ipotesi, ad andare ingiustamente in mille pezzi sono vite vere di persone vere, non c’è chi non veda, a mio parere, come, anche da questo punto di vista, separare le carriere di giudici e pubblici ministeri significhi semplicemente dare vita a vera e propria riforma di civiltà giuridica. È solo separando le carriere di giudici e pubblici ministeri, infatti, che sarà possibile recuperare il giudice alla cultura del limite che gli è, o che gli dovrebbe essere, sempre propria. Ed è solo recuperando il giudice alla cultura del limite che gli è, o che gli dovrebbe essere, sempre propria che, per il futuro, si può davvero sperare di non avere 42 vite vere che vanno ingiustamente in mille pezzi ogni 100 processi penali che lo Stato decida di celebrare'.
Redazione Pressa
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