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L'odissea giudiziaria di Giuseppe Pagliani: lunedì sera a Modena

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La prefazione del libro è di Vittorio Feltri: 'Giuseppe, dopo la sua esperienza di patimenti, intende combattere per tutta la vita perché non accada più'


L'odissea giudiziaria di Giuseppe Pagliani: lunedì sera a Modena
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'Ventitrè giorni'. Il titolo del libro richiama ai giorni di carcere che l'avvocato reggiano Giuseppe Pagliani ha dovuto subire. Ma sono anche l'inizio di una vicenda giudiziaria durata sette anni e mezzo e conclusasi con la assoluzione. Giuseppe Pagliani, consigliere provinciale e comunale prima di An e poi di Pdl e Forza Italia, sarà a Modena lunedì sera, 22 maggio, alle 20.45 al Caffè Concerto per presentare il suo libro con l'avvocato Alessandro Sivelli, l'ex consigliere Fi Andrea Galli, il giornalista Roberto Caroli e il direttore de La Pressa Giuseppe Leonelli.

Il libro, oltre al racconto in prima persona del protagonista, è arricchito da numerosi interventi, tra i quali quello del vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, del Capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati Tommasi Foti e del direttore di Libero Vittorio Feltri.

Proprio la prefazione di Feltri sintetizza in modo crudo l'odissea di Pagliani.

E qui la riportiamo in modo integrale.

La reputazione è il bene più prezioso che ci sia. Poter camminare con la fronte alta (magari dando un occhio fuggevole alle buche sul marciapiede), senza essere schivati dai concittadini come lebbrosi pronti a contagiare il prossimo, è il vero godimento della libertà. Brutto è restare chiusi in cella, ovvio, specie se non hai potuto difenderti, essendo in custodia cautelare, e sai che i tuoi cari patiscono, mentre i vicini, con falsa condiscendenza, sbirciano le smorfie di sofferenza di moglie e madre. Ma almeno in carcere nessuno ti giudica, trovi persino sguardi umani. Peggiore è venire liberati, con sentenza del Tribunale del Riesame che smonta le accuse, e ritrovarsi macchiati con inchiostro indelebile quale corrotto o addirittura mafioso per l’insistenza nello sputtanamento da parte dei pm in cordata con i media locali.

È il filo spinato invisibile del pregiudizio, che inesorabilmente ingabbia chi sia stato ammanettato di notte a favore di telecamera. Specie se il soggetto inchiavardato è un personaggio politico, e l’accusa è infamante, sei trattato dagli sguardi della brava gente come un morto che provvisoriamente cammina, ma sarebbe più prudente blindarlo. C’è chi si nasconde per preservare parenti e amici, c’è chi cede psicologicamente e sprofonda nel buio interiore. Ma accidenti quanta dignità, che coraggio di combattente, ho ammirato in Giuseppe Pagliani, protagonista di questa storia. La differenza, rispetto a mille vicende analoghe, è che alla fine ha vinto non solo in Tribunale e in Cassazione - com’era scontato, visto lo sconcertante e sfacciato travisamento di fatti e di parole operato dall’accusa - ma anche perché nell’immagine pubblica, tra la gente comune di qualunque opinione politica, è balzato fuori dalla tempesta come un gigante.

Il bilancio del male subito da Pagliani e della sua famiglia resta però terribile. Sul quaderno dei torti subiti ci sono 23 giorni di carcerazione ingiustificata e ingiustificabile, conferenze stampa à gogo di procuratori e sostituti procuratori dove l’onorabilità di un presunto innocente era scuoiata con lo scortichino per carogne; tutti erano autorizzati a tirargli in faccia un mulinello di cazzotti senza pericolo che ne fosse ripagato con la stessa vigliacca moneta; nessuna facoltà di replica essendo l’incriminato murato dietro sbarre di ferro; l’ostinazione dei titolari dell’accusa nell’ignorare le argomentazioni e le evidenze portate alla luce dalla difesa, ma soprattutto nell’appallottolare e gettare in pattumiera le sentenze e le motivazioni pienamente assolutorie dei giudici.

Mi permetto di riassumere la vicenda, sottolineando che però il finale non è ancora scritto. Lo sarà, e lo celebreremo quale passo avanti di civiltà, se vedremo tradotti in articoli di legge, applicati e non interpretati, i propositi del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, uomo retto e giurista eccelso, perché sia garantito il rispetto della dignità personale dell'indagato, che va risolutamente preservato dall'esibizione spudorata di accuse prima che il Tribunale si sia espresso con un giudizio. L'esempio cui conformarsi ci viene dalla cultura anglosassone e scandinava: discrezione assoluta nella fase istruttoria, parità tra le parti nel poter disporre indagini e raccogliere testimonianze, pubblicità del dibattimento, nessuno svolazzo di gossip riguardo a fatti privati senza nesso con le accuse, sanzioni finanziarie pesanti per chi viola questi principi basilari senza rispettare i quali si piomba in Urss.

Breve cronistoria ad uso aperitivo, onde sollecitare l'appetito per i piatti forti che seguiranno i miei stuzzichini.
28 gennaio 2015. Operazione Aemilia, arresti di 'ndranghetisti a iosa, sgominate le consorterie sparse nel territorio della Regione silenti e obbedienti alla sala comando in Calabria. Occorre a questo punto esibire il nome di un insospettabile notabile locale, meglio se esponente della politica, per alzare il livello di attenzione meritando la curiosità delle masse.
E qui casca a fagiolo l'avvocato Giuseppe Pagliani, classe 1973, dotato di una vis polemica assai fastidiosa per le sinistre al potere. Va umiliato, facendogli assaggiare l'amarezza e lo spavento della reclusione. Alle 4 del mattino bussano alla porta: «Toc-toc-carabinieril». Segue l'esibizione del mandato di arresto, quindi il tornado della perquisizione davanti ai genitori, poi via in prigione.

Pagliani funzionava perfettamente come personaggio della sceneggiata: il cattivo dev'essere un politico, e - ça va sans dire - di destra. Eccolo, è lui! Per vent'anni punta di lancia dell'opposizione al sistema rosso, dove si tengono per mano Pd e Coop costituendo una rete imperiale di dominio che coinvolge il terzo e il quarto potere: magistratura e giornalisti. In quel momento Pagliani - missino da ragazzo, quindi approdato con An nel Pdl - è ormai l'indiscusso leader di Forza Italia in tutto il Reggiano. Bersaglio idoneo pertanto.

Come lo incastrano? Aveva partecipato anni prima a una cena con imprenditori e politici. Sono per lo più calabresi. Come del resto il proprietario del ristorante 'Antichi sapori'. Quella cena era monitorata dai carabinieri per ricavarne l'organigramma dei mafiosi, dei loro clienti e dei politici di riferimento. Pagliani ci va, ascolta, dice due parole e va via.
Ciascuno paga il proprio conto. Da quel momento Pagliani è intercettato. C'è una telefonata che sembra prestarsi a inguaiarlo. Peccato sia stata però trascritta malamente: capovolgendone il senso, e dando perciò al colloquio il significato opposto a quello attribuitogli dal maresciallo e del libro dalla procura antimafia di Bologna.

Nessuna sottomissione alla criminalità da parte di Pagliani, nessun mettersi a disposizione dei mafiosi per assecondarne intenti delittuosi. Invece contro logica e buon senso, ma soprattutto tradendo la realtà fattuale, il brillante avvocato finisce in cella su proposta dei pm ricopiata senza vaglio critico dal Gip.
Sarebbe lui il terzo livello, quello politico, in un contesto mafioso che è il bosco dove le imprese edili, fondate da nativi della Punta dello Stivale, sono spuntate come funghi dopo lo sciagurato arrivo al confino reggiano di un boss della 'ndrangheta di Cutro (provincia di Crotone).

In buona parte le imprese sorte nei paesi intorno a Reggio Emilia erano controllate dalla potente cosca Grande Aracri. C'è un particolare grande come una casa: sono i cutresi ad aver tirato su le abitazioni private e gli edifici pubblici di Reggio e dintorni, inserendosi come ospiti del sistema rosso: la politica e gli apparati burocrati ci consegnano pavlovianamente gli appalti alle Coop, le quali subappaltano ai capimastro calabresi.

E chi vanno a individuare i magistrati inquirenti come protettore mefistofelico di un disegno che la Cassazione infine definirà «economia emiliana colonizzata» dalla mafia? C’è Pagliani con quella telefonata farlocca ma molto utile: il marchio Made in Cosa Nostra è bene sia calcato sulla reputazione di uno di destra in rapida ascesa. Reato peraltro impossibile, essendo l’avvocato azzurro totalmente estraneo, anzi nemico del sistema. Fa niente: manette!

Come detto il Tribunale del Riesame annullerà questa incarcerazione. Invano. La macchina trita innocenti non si ferma. Non la ferma neppure l’assoluzione in Tribunale di Giuseppe «per non aver commesso il fatto», La procura impugna la sentenza, vuole la condanna a tutti i costi. La Corte d’appello di Bologna esegue affibbiando 4 anni a Pagliani per concorso esterno alla ’ndrangheta. La Cassazione rimanda indietro la sentenza, si deve ripetere il rito davanti a un’altra sezione, e stavolta la sentenza dei giudici Pagliani è: innocenza a tutto tondo. È finita, uno penserebbe. No, la Procura si ostina e ricorre alla Suprema Corte. La quale nel giugno del 2022 - sono passati 7 anni e mezzo dalla prima tappa di questo itinerario orribile - scrive The End: assoluzione piena.

Pagliani non è contento, è furente. Com’è possibile che i pm sbaglino e facciano comunque carriera (i nomi li trovate nel libro), e un uomo veda irreparabilmente distrutta la sua carriera politica, danneggiata pesantemente l’attività professionale, sborsato un sacco di quattrini per la difesa, e tutto si risolva secondo il principio chi-ha-dato-ha dato-chi-ha-avuto-ha-avuto. Insomma questa vicenda dimostra per tabulas l’intoccabilità della casta dei pm.

L’assoluzione non basta a Pagliani: chiede il risarcimento allo Stato per la immotivata privazione della libertà. E la Corte d’Appello gli dà ragione: la galera preventiva è stata totalmente immotivata, Pagliani ha diritto al risarcimento. Ma la cifra tiene solo conto dei 23 giorni in gattabuia: 9.200 euro. Risulta un presa in giro a chi per chi ha subito da innocente non presunto ma acclarato sette anni e mezzo di tormenti. La cosa più indecente è che quei danni non li paga chi ha sbagliato per ossequio al sistema rosso, ma lo Stato, cioè noi. Detto questo, Pagliani aveva già deciso, prima ancora di sapere l’entità della «riparazione per ingiusta detenzione», di spenderla per metà in generi alimentari destinati ai poveri, e per metà alle vittime della malagiustizia. L’avvocato reggiano li ha già stanziati quei soldi traendoli dai suoi risparmi, senza aspettare i comodi dello Stato che come al solito se paga, paga tardi.

Giuseppe, dopo la sua esperienza di patimenti, intende combattere per tutta la vita perché non accada più. È ancora giovane. Ma non credo che fra trent’anni, quando avrà la mia età del dattero, sarà riuscito ad abbattere come Don Chisciotte il mulino a vento della malagiustizia. Ma ha ragione, la causa è giusta: io sono disponibile a fare la parte di Pancho.
Vittorio Feltri

Redazione Pressa
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La Pressa è un quotidiano on-line indipendente fondato da Cinzia Franchini, Gianni Galeotti e Giuseppe Leonelli. Propone approfondimenti, inchieste e commenti sulla situazione politica, ..   Continua >>


 
 
 
 

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