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'Non mi fermo qua, voglio sostenere e testimoniare quello che è l’essenza della trattativa Stato-mafia che ritengo ancora attuale, come era attuale al tempo di Falcone e Borsellino. Voglio proseguire perché ritengo che non sia più un problema giudiziario ma è ancora e molto evidentemente un problema politico'.
Il generale Mario Mori, già comandante dei Ros, dopo 13 anni di processi e vessazioni è stato assolto in Cassazione nel procedimento che lo vedeva implicato in merito alla cosiddetta trattativa Stato mafia, ed è stato dunque ritenuto del tutto estraneo a ogni trattativa illecita.
Il Generale è intervenuto pubblicamente al Festival della Giustizia Penale ripercorrendo, in una lunga e appassionata disanima, il percorso che lo portò alla cattura di Totò Riina, il rapporto anche personale con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, naturalmente, i suoi procedimenti processuali.
Riguardo ai suoi rapporti con Vito Ciancimino ha spiegato: 'Ciancimino non era uomo d’onore, anche se conosceva benissimo l’ambiente mafioso e come muoversi al suo interno. Dopo la morte di Falcone (e quando si prospettava quella di Borsellino) l’ho conosciuto, l’ho trattato bene per avere un confidente e feci due iniziative innovative: provare ad alzare il livello dei nostri contatti con la controparte e mandare quello che ritenevo il mio ufficiale più efficiente (Ultimo) con 15 uomini a Palermo, dove gli dissi di non frequentare le caserme, ma di trovare e catturare Riina. Come diceva Dalla Chiesa quando si trovano persone di queste organizzazioni non si arrestano, ma si seguono: se non si capisce questo non si può fare alta polizia». Mori ha proseguito spiegando i motivi di questo rapporto, che lo ha portato a processo, sottolineando la trasparenza e la linearità dei loro contatti, una linea riconosciuta sia in Appello che in Cassazione.
Sui suoi rapporti con Falcone e Borsellino, Mori ha raccontato della collaborazione per l’avvio dell’indagine “mafia-appalti”, e delle loro personalità, tanto opposte quanto complementari. Dopo le loro morti, ha raccontato: «In quel periodo non solo la politica scomparve, ma anche le gerarchie delle forze di polizia non dissero una parola. La nostra reazione fu “vabbè siamo soli e allora combattiamo come sappiamo fare”. Quando mi sono sentito solo, Borsellino e Falcone mi hanno dato la forza di andare avanti. Lo dovevo per dignità professionale. Lo dovevo all’amico Falcone, a Paolo Borsellino, a tutti i nostri morti. Lo dovevo a loro'.
Riguardo alla riapertura delle indagini sulle stragi del ‘92 e in particolare sulla possibile collaborazione tra mafia e ndrangheta controllata dalla massoneria, il generale spiega: 'La mafia militare, quella di quei tempi, non accettava collaborazioni, accettava solo la sudditanza da parte degli altri e pertanto non credo che possa essere coinvolto un ente superiore. In generale l’importante è sempre partire dai fatti per dimostrare i teoremi, e non viceversa. È così che faceva Falcone'.
In chiusura una nota di speranza circa l’arresto di Matteo Messina Denaro, per mano di un collega di Mori, comandante dei Ros, seguendo uno schema alla vecchia maniera: 'Una ottima operazione investigativa' la ha definita il generale.
Redazione Pressa
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