Da anni Lapressa.it offre una informazione libera e indipendente ai suoi lettori senza nessun tipo di contributo pubblico. La pubblicità dei privati copre parte dei costi, ma non è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge, e ci segue, di darci, se crede, un contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di
modenesi ed emiliano-romagnoli che ci leggono quotidianamente, è fondamentale.
A volte ritornano e questo ritorno, dal punto di vista dell’allestimento, lascia qualche perplessità per la scelta. Il soggetto è una delle opere verdiane più amate, il Rigoletto di Giuseppe Verdi, che il Teatro Comunale Luciano Pavarotti già propose nella Stagione 2019/2020 ed è andato in scena venerdì e ieri, 25 luglio. Ha rappresentato anche il ritorno alla vita per il teatro, per lo spettacolo, per l’opera del grande repertorio popolare, dopo un periodo lunghissimo di silenzio.
Causa pandemia da Covid e un caldo appiccicoso, che sconfessa la posizione di alcuni scienziati su un cambiamento climatico inesistente, l’opera è andata in scena all’aperto, nel Cortile d’Onore del Palazzo Ducale, sede dell’Accademia Militare. La decisione è stata ottima, sia per il colpo d’occhio su una struttura architettonica di grandissimo pregio, sia dal punto di vista dell’acustica che, per un’opera musicale, è fondamentale.
La serata è iniziata con l’esecuzione del nostro inno nazionale, sempre emozionante, e questa dovrebbe essere una tradizione da rinnovare ad ogni evento pubblico di prestigio, come accade negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi. Il “Canto degli Italiani” ricorda da dove veniamo, i nostri valori, che non fanno distinzione di razza, di religione e di genere e nei quali tutti dobbiamo riconoscerci.
Riproposta e creata da Giorgio Ricchelli, la scenografia di questo Rigoletto si rifà al minimalismo, a quella posizione sorta negli anni ‘60, che tendeva a ridurre all’essenziale gli strumenti dell’espressione artistica. Il termine fu coniato nel 1965 dal filosofo inglese Richard Wollheim, che voleva dare risalto al “non detto”, eliminando tutto ciò che nell’opera d’arte era percepito come non essenziale e ridondante.
Il minimalismo appassionò gli intellettuali del ’68 ma oggi, a cinquant’anni di distanza, non è certo una novità rivedere il palcoscenico abitato da strutture lineari e geometriche, da pochissimi oggetti, con il dominio del colore bianco e del nero nella scenografia e nei costumi: un contrasto ripetitivo, già visto e stravisto, ravvivato solo da qualche sporadica macchia di colore. Tutto ciò, compreso gli abiti creati da Alessio Rosati, è una veste sicuramente elegante ma triste, introspettiva, come furono quegli anni di contestazione e, in Italia, di “piombo”.
Oggi è un’epoca totalmente diversa e il ritorno allo spettacolo, alla positività e speranza meritava scelte diverse, a mio parere. D’altronde, Modena propone opere liriche nei cimiteri e di più non si può sperare. Una “Vedova allegra” di Lehar, un “Così fan tutte” di Mozart o un “Barbiere di Siviglia” di Rossini per tirare su il morale ai concittadini martoriati dal Covid non è venuto in mente a nessuno e allora ringraziamo che non ci è stata proposta “La forza del destino” sempre di Verdi, opera che notoriamente porta fortuna...
La regia firmata da Fabio Sparvoli, che per anni fu l’assistente di Giorgio Streler, si allinea a tante altre, troppe, che usano arbitrariamente opere d’arte concepite con una precisa finalità espressiva per proporre loro opinioni, a volte completamente estranee al pensiero dei compositori. È questo il caso, con il regista che elegge a bussola della personale interpretazione un’idea riportata anche nel programma di sala: “Tutti i personaggi dell’Opera attuano un cambiamento/travestimento”; peccato che nel Rigoletto di Verdi, il Maestro delineò perfettamente ogni personaggio con la sua musica, che esalta le liriche di Francesco Maria Piave.
A tale proposito, così scrissi per un altro giornale locale quando quest’opera fu presentata quale novità: “La gobba diventa posticcia! Nel senso che è una gibbosità inserita nella giacca che il personaggio indossa quando si trasforma nel buffone di corte. A questo punto m’attendevo che, al posto del Duca di Mantova, intonasse: “La gobba è mobile qual piuma al vento. A parte le facezie, come si giustifica il momento in cui Rigoletto parla di se stesso dicendo: «... O natura!… Vil scellerato mi faceste voi!… Oh rabbia!... esser difforme!... esser buffone!… Non dover, non poter altro che ridere!… Il retaggio d'ogni uom m'e' tolto... il pianto!...»? L’handicap è la ragione del suo disprezzo verso il mondo, ma se tale deformità non esiste (e può essere, può rappresentarsi nell’anima) cosa sospinge il suo amaro cinismo?”
Nell’opinione mia e di altri, il cuore dell’opera non è il cambiamento/travestimento, ma la diversità. La diversità di Rigoletto lo spinge ad odiare gli altri e costoro disprezzano il giullare per la sua diversità, come ho spiegato nell’articolo precedente. “La maledizione del dramma citata da Verdi non deve essere attribuita a una fatalità, a cause esterne, ma alla responsabilità dei personaggi e delle loro azioni. Il buffone di corte non ha subito la sorte avversa per il volere del fato, poiché è stato lui a provocarla e realizzarla.”
Finite le dolenti note, dico degli artisti, tutti bravi. Devid Cecconi ha ben interpretato il buffone con una indiscutibile bravura vocale alla quale si è aggiunta una ormai consolidata esperienza del ruolo; identico positivo giudizio è per Stefan Pop, che ha vestito i panni del Duca di Mantova ed ha mostrato apprezzabile vocalità, capace di preziose sfumature. È cosa non da poco, in un periodo in cui tenori e soprani, in modo particolare, sembrano avere una sola dinamica, il “forte”.
Il timbro quasi infantile nella sua dolce purezza di Daniela Cappiello ha perfettamente disegnato il ruolo di Gilda, che non ha certamente deluso il pubblico nella celebre aria “Caro nome”, esibendo una espressività e sicurezza tecnica di tutto rispetto.
Ragguardevole l’interpretazione di Antonella Colaianni e Ramaz Chikviladze per i due personaggi negativi, Maddalena e Sparafucile; quest’ultimo ha impressionato nuovamente per la voce cavernosa e sulfurea, che ben si adatta alla figura dell’assassino.
Gli altri ruoli sono stati interpretati più che decorosamente da Felipe Oliveira (il Conte di Monterone), Barbara Chiriacò (Giovanna), Roberto Carli (Matteo Borsa), Marcandrea Mingioni (Marullo), Luca Marcheselli (il Conte di Ceprano), Maria Komarova (la Contessa di Ceprano), Paolo Marchini (un usciere di corte), Matilde Lazzaroni (il paggio della duchessa).
Precisa ed espressiva anche la direzione di Alessandro D’Agostini, sul podio dell’Orchestra Filarmonica Italian, e ottima prestazione quella del Coro Lirico di Modena preparato da Stefano Colò. A questo proposito, ricordo un’indicazione del regista che mi fece sobbalzare, perché il Cavaliere è stato paragonato a tutto e al contrario di tutto, ma mai al Signore di Mantova : “La difficoltà di scavo psicologico è stata quella di far capire al coro che questa corte vive sulle spalle del Duca, un po’ come accadeva ad Arcore con Berlusconi».
Massimo Carpegna